potrebbe scatenare le ire del pubblico. Fortunatamente però Spielberg non si tradisce e dà prova, se ancora ce ne fosse stato bisogno, di maestria e rigore.
Tanto per cominciare il ruolo del protagonista viene affidato a un attore in grado di vestirne autorevolmente i panni. L'oscar consegnato a Daniel Day-Lewis lo ha confermato senza se e senza ma. Tra parentesi, ecco una di quelle cose che fa la differenza fra Hollywood e il cinema nostrano: ruoli importanti affidati ad attori all'altezza della situazione. Da noi, con tante storie che avremmo da raccontare, si preferisce sempre rappresentarle dal punto di vista laterale di qualche personaggino insignificante, spesso inventato, come se non si avesse il coraggio di affidare l'interpretazione di qualche "pezzo grosso" della nostra storia, come se da queste parti non ci fosse nessuno in grado di fare il Russel Crowe della situazione.
Poi, le scenografie. Per un film in costume ciò che conta guarda un po' sono i costumi ma per fare qualcosa di grandioso, un kolossal, insomma, si muovono paesi, controfigure. Fatto anche questo. In definitiva, stiamo parlando di un filmone, con tutti i crismi del caso e di certo è da guardare. Nonostante questo però, non è indimenticabile.
Il personaggio di Lincoln è forse più interessante da un punto di vista simbolico che narrativo. Spielberg non cade troppo nella retorica di cui sopra e racconta la storia del presidente in modo solo leggermente romanzato. Per il resto mantiene un taglio prevalentemente umano, si parla molto di vita quotidiana, si lascia spazio alle riflessioni, a qualche inevitabile massima da uomo saggio e colto. La parte però più avvincente è senza dubbio la genesi della legge per l'abolizione della schiavitù. Qui è la politica che sale in cattedra, quella vera, quella che, con buona pace di tutti, si è sempre fatta, si fa e si farà sempre.
Questo è un film interessante perché non presenta Lincoln come un illuminato statista le cui idee progressiste danno luce alle menti ottenebrate degli uomini. E' interessante perché parla di un abile politico, di uno stratega della comunicazione e senza dubbio di un uomo coraggioso, capace di rischiare, pur sempre guidato da una proverbiale saggezza. Qualità che gli hanno permesso non solo di guidare un esercito nella sanguinosa guerra di secessione, peraltro più come guida spirituale che come vero e proprio condottiero ma soprattutto di guidare una battaglia politica per il bene di un paese. Un bene comune che passava quasi accidentalmente dalla schiavitù e che quindi, per utilità di tutti, ne richiedeva l'abolizione. Un punto di vista molto più pratico e meno romantico ma, facendo i conti con la vita reale, molto più efficace, in pieno, pragmatico, stile anglo-sassone.
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